UMORI, TREMORI, LACRIME E SANGUE
Saturno Buttò vive vicino al respiro del mare. E come il mare il suo racconto contiene storie fascinose e inquietanti profondità. Quando la porta del suo studio si richiude sull’affollato viavai di turisti, sembra di avere varcato la soglia del tempo e di ritrovarsi in un oltretomba proibito, traboccante di seduzioni. Una musica insinuante supera l’inatteso silenzio e si è avvolti da un accattivante languore, accentuato dall’intrico di luci ora sfavillanti ora discrete che intensificano visioni attraenti e impudiche.
Non è un semplice atelier di pittore. E’ un tempio in cui officiare. Un utero confortevole e asciutto, impreziosito da una scenografia raffinata in cui volumi eleganti, riviste licenziose e rare, legni, tappeti, teste scolpite ornate di corna, rigorosi divani in pelle nera, ferri chirurgici, feticci africani, matite, pennelli, sculture moderne ed arcaiche, correttori ortopedici, maschere di cuoio e anti-gas e altri eccentrici oggetti sono attorniati da quadri disposti a fondale, dai quali si leva in muto lamento una teoria di figure vermiglie che si affolla intorno, in un clima da girone dantesco.
E il nostro autore, dita da pianista, sguardo penetrante, ampia fronte e profilo assottigliato in un mefistofelico pizzetto, ci introduce alla moderna liturgia delle sue curiose creature che traggono suggestione da tradizioni cruente e scabrosi tabù. Cosa sarà passato in tutti quegli animi che per secoli hanno dovuto vedere migliaia di opere commissionate dalla Chiesa, raffiguranti truculente passioni di Cristo, santi trafitti (Mishima avrebbe avuto il primo orgasmo guardando il San Sebastiano del Reni), barbare mutilazioni di martiri, ciniche Salomè e San Giovanni decollati, giudizi universali con cascate di condannati precipitati agli inferi, straziati dai sadismi di diavoli inferociti? Erotismo e dolore, trasgressione e piacere, in continuo conflitto tra demoniaco e celestiale, e godimento come tregua o sublimazione estatica del dolore, sono tra i motivi conduttori di cui si nutre l’opera di Buttò, arricchita da una miriade di riferimenti colti e di provocazioni sarcastiche, innescate dalla sua intransigente visione degli effetti della religione. Non vi è traccia di oscenità ostentata né di compiacimento blasfemo.
L’oscenità, squisitamente cerebrale, origina se mai dai geniali contrasti e dall’audacia delle contaminazioni tra sacro e profano – ma non discendono entrambi dall’unico Demiurgo? – che Buttò trasforma in immagini per i nostri pavidi occhi, in grado di sommuovere delicati equilibri dell’anima, rivelandoci le intuizioni più turpi. Saturno Buttò, come ogni uomo, ha una sua partita aperta con Dio. E la gioca con tutto il suo potere di evocazione delle violente contraddizioni che con perversione gaudiosa divelgono le radici delle nostre esitazioni e l’assurdità dei nostri rimorsi, palesando l’inganno di ciò che ci viene chiesto di venerare. Da qui forse una sensazione confusa di profanazione, non indotta da impudicizie di amori carnali, ma da emozioni impetuose che attraverso sublimazioni irrituali contrastano la pretesa di una mistica mortificazione dei sensi. Perché dolore e morte sono degni di serietà, mentre il piacere è esecrabile e sudicio? E l’occhio che si insinua gioioso e sfrenato nelle intimità femminili o che indugia indiscreto sulle pudenda maschili (le vergogne della nostra educazione) è forse l’occhio del Male? E’ il dolore, non la morte, la più atroce invenzione divina.
E il dolore si infligge attraverso il corpo – lo strazio del Cristo – che è prima e diretta esperienza dell’uomo, il tramite di tutte le sue sensazionali esperienze, il bersaglio di umani e sovrumani deliri. Le torture alle streghe, le sante inquisizioni, le persecuzioni, l’ecatombe delle guerre giuste, gli esorcismi sugli indemoniati, le condanne a morte e i roghi degli eretici sulle pubbliche piazze potevano non lasciare tracce profonde, traumatizzanti ? Il senso di colpa, la castrazione di impulsi vitali, lo sgomento interiore, i tormenti della confessione sembrano a Saturno Buttò – credente anche se non osservante – vincoli assurdi se rapportati all’elemento umano, orientati contro la natura dell’uomo, insopportabile contrasto tra l’attrazione esercitata dal sacro e la divina riprovazione per il peccato: il più istintuale e potente dei nostri desideri. E poi i cerusici, altra casta sacerdotale, inventori di ferri chirurgici di sinistro fascino, satanici strumenti di sevizie che aggiungono soprassalti di patimento a carni indifese col borioso pretesto di sanare, violando impunemente i corpi per indagarne gli arcani, profanando intimità, oltraggiando sensibilità inermi.
Così Saturno Buttò inserisce fisicamente nei quadri arnesi operatori di agghiacciante, asettica perfezione di forme, fissando una pinza di sutura tra due ritratti – prima e dopo inturgidimenti di labbra e di seni, resezioni di nasi e amenità consimili – o altrove con l’aggiunta di ingiuriose ampolle per clisteri o minacciose ipodermoclisi a penzoloni su trepidanti cavie umane. Di questo si sostanzia l’incantesimo dei suoi nonsense, fissati in momentanei ristagni di silenzio, dai quali in ogni attimo può sorgere la possibilità di un feroce disordine. Nell’opera Silvia Devotio riappare il famoso segnacolo del Sacro Cuore che una piacente fanciulla ostenta in penosa scarnificazione sul petto scoperto, marchio a fuoco di fede che le lascia sollevata la pelle irrorata di sangue, con l’aggiunta di stimmate sulle mani devote, fasciata di un velluto amaranto con un cordone penitenziale incrociato sul grembo. Cruciale richiamo ai simboli forti della iconografia cristiana in tempi di antitesi al dilagare dell’islamismo. Tutto quello che facciamo, il mistero e l’ineludibilità dei nostri riti, sono conseguenza della religione – sostiene Buttò – ed essi appaiono come faccia contrapposta alla realtà che reclama invece il diritto di abbandonarsi alla seduzione. Ogni rappresentazione diventa dunque metafora, rimando sobillatore alla prevaricazione della rappresaglia divina su un’umanità sopraffatta, che cerca scampo e rivincita nella trasgressione del piacere negato. E poi, per alcuni, lo scandalo.
Vi sono opere di Buttò che ritraggono bambine nude, non rileviamo i nudi di putti in quanto non riprovevoli, mentre il nudo maschile chissà perchè diventa improponibile solo da adulto, ancora oggi oggetto di rigorosa censura. Ci troviamo in pieno terzo millennio, secolo di pretesa emancipazione democratica, di libertà (nostra bestemmiata chimera!) e di inarrestabile progresso e dobbiamo sopportare che si pubblichino libri con puntini al posto di frasi ritenute irripetibili. Che sono state scritte da uomini come noi, per uomini come noi. Chi è il Superuomo che si arroga tale diritto? Conferitogli da chi? Perché nessuno si ribella? Come si può ancora accettare che vi siano bibbie, film, quadri, testi, immagini, verità solo per Individui Eletti che si ergono a decidere su loro pari cosa gli altri possano leggere, vedere, conoscere? Mi sono imposto una forma di autocensura – ci dice Buttò – cercando di evitare la volgarità. Ma i benpensanti, gli inutili idioti di una farisaica morale sono molto vigili, quanto sprovvisti di rispetto e di ironia….”Non vedo perché rinunciare ad un soggetto interessante al pari di qualsiasi altro – osserva Buttò – esso fa parte della normalità e, se trattato con correttezza, perché dovrei bandirlo dai miei temi di ispirazione?” Non è giusto rinunciare a un progetto, soffocare un’idea interessante per non correre rischi.
La nudità fa paura? E’ forse il più torbido dei richiami. Ma il corpo è anche la nostra inconfondibile identità, il nostro unico possesso, l’estremo personale lacerto che consegneremo all’umidore del sepolcro. L’Opus Dei, stupenda schiena nuda di donna, dal largo sensuoso bacino al fondo del quale si allarga l’ambigua scritta del titolo nell’eleganza del carattere gotico, provoca un divertito scalpore interiore. Quale opera è più compiutamente divina di un nudo di donna e cosa vi è di più empio – per i codini – della contaminazione tra religione e un bel fondoschiena ? «Ma Dio ha gli intestini?» si chiedeva perplesso Milan Kundera. Uscire dalle regole è l’imperativo di Saturno Buttò, urgenza e dovere dell’artista, preda delle più aberranti ma anche stimolanti antinomie. Che il cristianesimo sia davvero all’origine di tutto lo sconfinato erotico degli ultimi secoli? Se così fosse, per altro, come non essergliene grati? Il ricorrente e scoperto richiamo sesssuale, coscienza di una lacerazione interiore che sottende insistentemente il tema religioso e la sua iconografia, ma anche il fetish, il noir, la body modification, i culti pagani, il piercing e il sadomaso, il punk e il dark stanno alla base delle creative meditazioni di Saturno Buttò, che con irriverenza contamina la sacralità dei rituali con fisionomie e tic del quotidiano, ove è assente l’estasi immateriale della vergogna, come in Pasolini e in De Sade, ma su cui aleggia una sottile ansia di redenzione. In Danae, ingravidata dalla mitica pioggia dorata di Giove, ridotta qui a inseminante e mirato fiotto virile, e nel suo contrappasso, la stupefacente Pissing woman che presenta un avvenente soggetto di donna ignuda nell’atto di liberare un impetuoso getto di orina, incontenibile orgasmo fecondatore a inondare la terra quale unica e vera generatrice dell’umanità, affrancata dal misero concorso di inutili fuchi, Buttò raggiunge tensioni emotive memorabili. In Milk si ammira una bellissima giovane compiutamente nuda, proprio perché inguantata di nero fino ai gomiti, con un profilo flessuoso e perfetto, che strizzandosi una mammella caprina fa sprizzare un candido, denso zampillo di latte, nutrimento sublime, che in lieve traiettoria obliqua irrora il fondo nero del quadro, restando lussuriosamente immortalato nell’aria.
Evocazione impulsiva di una generosa Susanna o dello steinbeckiano Furore, ove una puerpera porge il giovane turgore del seno al disperato squallore di un vecchio morente di fame. Crudele contenzione manicomiale, pallori e sudori di un’isteria sfogata e rappresa in un ultimo livido singulto di sovreccitazione e di bava, nel Ritratto di Samantha lo sguardo contiene lo sgomento allucinato per l’ennesima soperchieria subita. Nell’opera Fetish, tema sul quale Saturno Buttò lavora da tempo, trionfa ancora una volta l’interminabile incanto di un nudo femminile di schiena, reiterato in un trittico esultante di rossi e neri, che imprigiona gli sguardi scossi dalla bellezza, galvanizzati dall’invenzione dei lacci di un nero corsetto di cuoio che diventano legature di carne, infibulazione dorsale, cucitura di un peccaminoso recesso, per tornare ad essere feticistica costrizione di carni, urlante idolo sensuale che scatena la fiera che si annida nell’uomo. Riflessioni stringenti, e sfida per enigmi, sull’uomo che nasce già infetto e soggiogato da un mai commesso peccato. E sul colpevole silenzio di un Dio («Fatti vedere, Tu che mi spii» provocava il pirronista Bufalino) che non si giustifica per il male del mondo. Un Deus Otiosus o un Demiurgo stanco e deluso che non si capacita di avere dischiuso l’accesso alla titanica lotta tra le potenze del Bene e del Male, consentendo che la condizione umana finisca per essere intuita come il prodotto maligno di una sviata volontà divina. Una pittura nitida e personale, di sana impronta figurativa, stesa con la pazienza riflessiva delle velature su tavola, in cui prevalgono i rossi accesi delle perversità e del piacere, gli ocra delle malinconie e i neri del dolore e della morte, con sontuoso impiego della foglia d’oro a nobilitare l’infamia della carne.
Ammirevole l’elegante monogramma gotico-cabalistico-saturnino che Buttò usa come firma, a conferma delle sue straordinarie doti di gusto e di disegnatore raffinato, vero maestro di armonia e di proporzioni, formidabile ritrattista e sapiente padrone dei segreti delle anatomie e del drappeggio, che si ritrae talvolta in ieratiche ma anche beffarde posture. In un autoritratto, a spalle nude, fasciato stretto al petto come un torero da una veste carminio che si apre inattesa in basso a campana, consentendo ampia ventilazione alla virilità, egli brandisce l’allegoria di un pennello quale arma pronta ad offendere, incoronandosi di un imponente trofeo di ritorte corna di muflone che gli conferiscono un’aura di autorevole rattenuta potenza, lasciando tuttavia filtrare un moto di ironia nello sguardo trucemente accigliato. La sua pittura è una summa delle ossessioni esistenziali del nostro tempo, vissute nel tormento del raziocinio e nell’assillo di un’impossibile composizione di opposti. Se il mistero del dolore patito, equanime e assiduo compagno di vita, conterà davvero come espiazione, ci auguriamo si tramuti in bastante gruzzolo di pietà a commuovere il Dio che ci attende, affinchè affidi la nostra anima sfinita a un’eterna quiete di tenebra.
Giovanni Serafini